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Un Papa voleva togliere il celibato per i preti. Morì prima di riuscirci!

Il celibato imposto al sacerdozio ha origine da un precetto o da una consuetudine? E perché la Chiesa Cattolica lo ritiene necessario, mentre può essere ragione di cadute che forse potrebbero essere evitate da chi potesse crearsi una legittima famiglia? (M. G. - Roma).

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Sono grato al rocchigiano M. G. per l’occasione che mi porge di dire una chiara parola sul vitale argomento che tanto interessa il mondo laico d’oggi.

Non sono mancati i « precettisti », nei due sensi opposti. V’è chi, nel campo protestante, quando S. Paolo dice che Vescovi, Preti e Diaconi debbono essere scelti tra chi « abbia preso una sola moglie » (1 Timoteo 3, 2-12; Tito 1, 6), vi vede il precetto dato al clero di prendere moglie. Senza accorgersi che ciò porrebbe S. Paolo in contraddizione con il sacro celibato da lui prescelto, magnificato e prudentemente consigliato (cfr 1 Corinti 7, 7; 32-35) e con il privilegiato consiglio di Gesù: « Vi sono eunuchi che si fanno tali da sé stessi per il regno dei Cieli. Chi è capace d’intendere, l’intenda » (Matteo 19, 12).

La predetta norma di S. Paolo quindi, invece che in senso ingiuntivo, va intesa in senso restrittivo, cioè come proibizione di accedere agli ordini sacri per coloro che siano, benché legittimamente, passati a seconde nozze. Vi fu all’opposto chi volle affermare l’esistenza di una legge celibataria di origine apostolica, mentre è storicamente certo che nei primi secoli era riconosciuto il diritto al clero di vivere nello stato matrimoniale, come le predette stesse norme di S. Paolo provano.

In realtà non si tratta che di « consiglio » evangelico abbracciato, secondo i desideri del Divin Cuore, dalla totalità degli Apostoli - che o non abbracciarono mai o abbandonarono, come S. Pietro, la vita coniugale - e via via dal miglior clero, fino a costituire la più nobile consuetudine e divenire infine legge canonica. Ed è significativo il diverso sviluppo della consuetudine e della legge in oriente e in occidente. In oriente, dove era più sensibile l’influsso laico imperiale, restò aperta qualche possibilità allo stato matrimoniale. In occidente la prescrizione celibataria divenne completa. Pur senza alcuna pretesa erudita, gradirete, ottimi lettori, che vi ricordi che la prima legge occidentale che si conosca, della continenza assoluta, è del Concilio di Elvira (Granada) verso il 300, e che la lunga serie degli interventi papali sempre più favorevoli allo stato celibatario obbligatorio, ebbe il suo coronamento nel Concilio Lateranense I, adunato da Callisto II (1123), nel quale fu estesa la legge, non solo della proibizione, ma dell’invalidità del matrimonio anche ai Suddiaconi, legge confermata dal Concilio Lateranense II (1139) e da Alessandro III nel 1180.

Da allora gli Ordini Sacri sono stati per sempre indissolubilmente congiunti al celibato. Umanamente parlando c’è indubbiamente da restar pensosi. Può sembrare strano questo progressivo intervento della Chiesa per stringere intorno al suo clero le catene d’oro di ciò che non era che un libero consiglio evangelico, urtando contro così potenti inclinazioni naturali, sfidando lungo i secoli le più ostinate resistenze teoriche e pratiche. Basterebbe pensare che nel sec. XI ci fu un Vescovo, ostile al celibato, che arrivò perfino a compilare e fraudolentemente attribuire al Vescovo S. Ulrico di Augusta (m. nel 973) un libello anticelibatario. E il monaco Lutero donde trasse gli intimi impulsi della sua tragica ribellione (e tanta parte della sua potenza di proselitismo) se non dall’insofferenza (propria e altrui) della giurata continenza? Le sue confessioni sul dilaniante morso della propria carne sono esplicite: « brucio per il gran fuoco della mia indomita carne » (a Melantone, 13 luglio 1521).

Impressionante l’episodio di Pio IV: a fatto compiuto, per risanare in qualche modo la sanguinosa ferita protestante e sotto l’immancabile pressione degli Imperatori laici, egli pensò seriamente a una momentanea dispensa dal celibato per quel clero germanico; ma sul più bello lo colse la morte; e il successore S. Pio V non ci pensò più.


Da un punto di vista di prudenza umana sarebbe sembrato tanto più naturale che la Chiesa largheggiasse su quel punto, concedendo l’elezione al comune stato di vita, anch’esso benedetto dal Signore, e in tal modo facilitasse il reclutamento dei suoi sacerdoti e il loro regime di vita.

Ma l’errore sta proprio nel guardare con occhio umano ciò che deve essere invece considerato con occhio divino. O, se si vuole, l’errore consiste nel ridurre a un problema di facilità ciò che è invece un problema di nobiltà, di altezza di vita; nel ridurre a un problema negativo e ristretto di fuga del peccato, ciò che va invece considerato nei riguardi della positiva apostolica donazione. La Chiesa, interprete dei desideri di Cristo, non intende tanto di facilitare la vita del clero, quanto piuttosto di adeguarla alla sublimità della sua vocazione e della sua missione, la quale reclama la donazione totale e l’esclusivo orientamento delle preoccupazioni a Dio e alle anime. Il che, secondo il predetto insegnamento di S. Paolo, è incompatibile - per la sua completa attuazione - con lo stato matrimoniale che implica la divisione del cuore e delle preoccupazioni tra Dio e la famiglia terrena. Il celibato ecclesiastico è un « sì » d’intima e totale donazione allo Sposo Divino, attuata per impulso delle speciali grazie della vocazione.

Né deve temersi che allontani i fedeli, creando una specie di separazione dalla loro esperienza di vita, perché all’opposto, per il fascino stesso della verginità, li apre alla venerazione del sacerdozio e a maggior confidenza in chi pur stando a contatto del mondo gode della superiore imparzialità derivante dal vivere al di sopra del mondo; e inoltre li incoraggia nel combattimento dei sensi, proprio dello stato stesso coniugale, per l’esempio vissuto della superiore vittoria verginale sacerdotale.

Ma, anche umanamente parlando, vi sarebbero precisazioni pratiche da fare. Che il celibato implichi, in linea di massima, un regime più mortificato di vita, è certo. Ma che metta in maggior pericolo di peccare non è vero. Il distacco netto e generoso - compiuto con l’aiuto delle speciali grazie sacerdotali - dalla sfera dei sensi, facilita sotto molti aspetti la vittoria. E tutti sanno d’altra parte quanto difficile possa essere in certi casi il combattimento della castità nello stato matrimoniale, se non altro per i gravissimi problemi collegati con il santo moltiplicarsi della prole.

Pier Carlo Landucci, Servo di Dio e teologo della Casa Pontificia († 1986)
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