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In questo video: Il professor Alessandro Barbero viene interrogato su Nerone e sul perchè la sua fama sia pressochè negativa sui libri di Storia. Libro consigliato da Alessandro Barbero personalmente: 📚 Nerone: Amazon.it
Francesco Federico
@Diodoro
@Giovanna Delbueno
@Oremus
Purtroppo ci sono stati anche "papi" (o presunti tali) massoni:
Tombali massonici.Altro
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@Oremus

Purtroppo ci sono stati anche "papi" (o presunti tali) massoni:
Tombali massonici.
Francesco Federico
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Visto che non amate il professor Barbero, ecco il parere, sull'argomento di
Davide Canfora (Dal 29/12/2006 è professore ordinario prima di Filologia Italiana (ssd L-FIL-LET/13) e poi di Letteratura Italiana (ssd L-FIL-LET/10) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia (ora Dipartimento di Lettere, Lingue e Arti) dell'Università degli Studi di Bari.Tra le figure …Altro
@Diodoro
@Giovanna Delbueno
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Visto che non amate il professor Barbero, ecco il parere, sull'argomento di
Davide Canfora (Dal 29/12/2006 è professore ordinario prima di Filologia Italiana (ssd L-FIL-LET/13) e poi di Letteratura Italiana (ssd L-FIL-LET/10) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia (ora Dipartimento di Lettere, Lingue e Arti) dell'Università degli Studi di Bari.Tra le figure più rappresentative e complesse dell’Umanesimo italiano – filologo, storiografo e commentatore della storiografia antica, filosofo, studioso e storico della lingua –)
ha curato la voce sulla "Enciclopedia Italiana" Treccani
di

Valla Lorenzo (nato a Roma nel 1407 e ivi morto nel 1457) legò indissolubilmente il proprio nome alla dimostrazione dell’inautenticità della cosiddetta donazione di Costantino; fu anche raffinato conoscitore della lingua greca, da cui tradusse per la prima volta in latino, tra l’altro, Erodoto e Tucidide.

Dal punto di vista della formazione culturale e delle vicende personali, V. e M. hanno tratti complessivamente distanti, se non opposti, nell’ambito dell’età umanistico-rinascimentale: studioso ‘puro’ il primo, impegnato in ricerche – diremmo oggi – specialistiche; uomo politico versato nelle lettere il secondo, attento lettore e buon conoscitore della cultura antica (latina, in primo luogo) e umanistica, ma poco interessato a inoltrarsi nelle questioni dottrinali o erudite su cui si soffermano gli scritti valliani. La conoscenza – diretta o indiretta – dei libri di V. da parte di M. può essere data teoricamente per scontata: l’autorevolezza dell’umanista romano presso i contemporanei e, ancor più, presso le generazioni successive era straordinaria: Erasmo da Rotterdam individuò in lui, idealmente, il proprio ‘maestro’; le Elegantie divennero un vero e proprio manuale umanistico di buon latino. Riesce comunque difficile immaginare che M. – la cui indole pragmatica accettava di buon grado e anzi si compiaceva di mettere a frutto anche le conoscenze orali che derivavano dalle conversazioni con altri uomini di cultura – si sia impegnato nella lettura organica e complessiva di un autore erudito come Valla. D’altra parte, la possibilità che alcune questioni ‘tecniche’ (giuridiche, in particolare) suscitassero l’interesse di M. è stata da ultimo felicemente indagata, con esiti convincenti (Ruggiero 2013).

V. non visse, beninteso, isolato dal contesto politico. Non diversamente dagli altri umanisti, ancorché impegnato in ricerche raffinate, egli non poté eludere le necessità celebrative e contingenti nella propria produzione filologico-letteraria. Lo si può cogliere, meglio che altrove, dagli scritti che toccano argomenti storici: non solo dalla storiografia in senso stretto (e, ovviamente, dalle dediche collocate in apertura di altre opere), ma dalla stessa Declamatio sulla donazione di Costantino. Questo testo, che per i posteri rimane uno dei più brillanti esempi di filologia umanistica e che – con qualche forzatura – è stato considerato uno dei primi manifesti del pensiero laico, prendeva in realtà spunto da una questione ampiamente discussa (Dante aveva già messo in questione se Costantino avesse titolo per ‘donare’ i territori dell’impero; gli argomenti contro l’autenticità della donazione elaborati da Nicola Cusano dimostrano come la discussione del problema fosse ben avviata in età umanistica) e veniva principalmente incontro alle mire concrete del re di Napoli, presso il quale V. era in quel tempo al servizio. Al sovrano aragonese tornava ovviamente molto utile poter contestare le rivendicazioni feudali del pontefice sui suoi territori. M. condivise implicitamente la polemica valliana contro il papato: eppure – non solo nel Principe e nei Discorsi, ma anche nel I libro delle Istorie fiorentine (ix), dove egli ricostruisce la vicenda più antica del papato e il lento e inesorabile accrescersi del suo potere temporale in area italiana – preferì fondare il proprio ragionamento non sui dati filologici, bensì sull’oggettività della ricostruzione storica, che dimostrava in modo inequivocabile come lo Stato della Chiesa avesse rappresentato per secoli una causa di profonda disunione politica e morale nella penisola (Vian 2004).

Quali dunque i possibili punti di contatto tra V. e M., che si presentano agli occhi dei moderni come due cime alte e distanti, non direttamente collegate tra loro? Il primo legame ipotizzabile è, per così dire, funzionale. Gli storici greci tradotti in latino da V. si rivelarono una miniera di informazioni, in gran parte nuove, per un pubblico in larga misura ignaro di quella lingua antica. Anche M., che era un letterato non professionista e un lettore curioso, si trovò certo – come altri suoi contemporanei – nella posizione di poter trarre vantaggio, per via diretta o indiretta, da quelle preziose traduzioni (Bausi 2005).

Un legame vivo tra M. e V. (ma, si può dire, tra il Segretario fiorentino e la filologia umanistica in genere) si individua inoltre nel nome e nell’opera dello storico latino Tito Livio. Si può parlare in questo caso – più che di un diretto punto di contatto tra l’opera di M. e quella dei filologi a lui precedenti – di un segno vistoso di continuità culturale tra la grande stagione della cultura umanistica e la formazione di un uomo colto e raffinato di primo Cinquecento. M. non mostra esplicito interesse per la conquista del testo di Livio, che era stato l’autentico laboratorio e il campo di battaglia della filologia umanistica da Francesco Petrarca a V. (e oltre). Ma costruisce il proprio edificio argomentativo grazie a quella conquista ardua e gloriosa, fondando appunto sul racconto liviano i Discorsi, che rappresentano forse la sua più articolata riflessione politica. La scelta di Livio aveva ragioni ideologiche e rispecchiava la contraddittorietà del Segretario fiorentino: lo storico antico aveva comunque fama di nutrire caute nostalgie dell’epoca repubblicana in età augustea; di Livio veniva scelta da M. la narrazione relativa all’epoca arcaica, in cui si configuravano le premesse della commistione tra monarchia e repubblica che al Segretario fiorentino sembrava fosse la ragione del successo di Roma e la forma più duratura e solida di organizzazione del potere (V., al contrario, ebbe parole di rimprovero nei confronti dell’accondiscendenza monarchica dimostrata da Livio). Se dunque M. poté arrivare con facilità a Livio, lo dovette a chi prima di lui, negli anni dell’Umanesimo, aveva ‘sistemato’ il testo liviano. La stessa ambiguità machiavelliana riguardo alle forme istituzionali (repubblica e principato) aveva radici umanistiche: si pensi, se non altro, alle riflessioni politiche petrarchesche e all’oscillazione di Petrarca tra il mito di Scipione e quello di Cesare. E non è fuori luogo precisare, incidentalmente, che il pensiero politico umanistico-rinascimentale era attraversato da questioni, per così dire, di lungo corso: fa fede in proposito la riflessione del Catalano (Gerolamo Paolo di Barcellona), commentatore di V., che – alcuni anni prima di M. e comunque durante il ‘regno’ del Valentino – già teorizzava la necessità che un principe forte prendesse in pugno le sorti dell’Italia e risollevasse la penisola all’antico splendore (Antonazzi 1985).

La figura di Cesare, comunque, rappresentò per M. un polo univocamente negativo. Egli ereditò, come si diceva, dall’Umanesimo la flessibilità nel giudizio sulle istituzioni (nei Discorsi, opera ‘repubblicana’, si legge per l’appunto l’elogio di Romolo e di Numa e si spiega che nessuno Stato, al suo nascere, può fare a meno di un re). Ma Cesare apparve a M. null’altro se non il distruttore della repubblica (non dunque un restauratore delle istituzioni, come voleva la tradizione filocesariana) e il primum movens di una lunga serie di sciagure e di imperatori inetti o crudeli, che dovevano appunto al colpo di Stato cesariano la possibilità di essere successivamente ascesi al potere. Un pensiero, questo, ben rappresentato nella cultura dell’Umanesimo repubblicano (ricordiamo le lettere di Poggio Bracciolini in difesa di Scipione e la Laudatio di Leonardo Bruni, dove Cesare viene giudicato colpevole per il fatto che Caligola, Nerone ed Eliogabalo divennero a loro volta principi) e presente, tra l’altro, proprio nel cap. xviii della Declamatio di Valla. Meno risonanza rispetto a tale pretestuoso argomento anticesariano ebbe nei secoli, pur in un contesto divenuto nel frattempo quasi interamente monarchico, l’acuta replica di Guarino Veronese a Poggio: accusare Cesare di aver favorito la presa del potere da parte di Eliogabalo equivaleva – secondo Guarino – ad accusare Pietro di aver consentito al peggiore tra i suoi successori di divenire pontefice. Un caso in cui il ‘realismo’ di un umanista superò in pragmatismo e spregiudicatezza il punto di vista espresso da Machiavelli. D’altra parte, M. non sembra mosso – pur nella sua ammirazione sincera per la vicenda storica di Roma – dalla visione epica della città antica che anima la ricostruzione di V. (si pensi anche a testi in cui, almeno in teoria, l’ideologia dovrebbe essere più sfumata: per es., il proemio delle Elegantie, i cui contenuti politici e la cui impostazione ‘eroica’ sono stati indagati da Mariangela Regoliosi).

V. e M. sono accomunati anche da un vivace spirito anticlericale, che in V. raggiunge forse l’apice nel De professione religiosorum e nel Fiorentino prende corpo non solo nella polemica contro la Stato della Chiesa e contro le politiche ecclesiastiche, ma altresì nella caratterizzazione sfavorevole degli uomini di chiesa nelle opere letterarie (si pensi in primo luogo al frate Timoteo della Mandragola). In realtà, non è fuori luogo precisarlo, i motivi anticlericali e la critica nei confronti dei costumi dei sacerdoti sono uno dei temi più frequentati sin dal tardo Medioevo e dagli albori della cultura umanistica. Pensare a un rapporto diretto tra V. e M. potrebbe apparire anche in questo caso una forzatura: molto dell’anticlericalismo ‘letterario’ di M., al contrario, è debitore nei confronti di Giovanni Boccaccio; la critica nei confronti della vita e dei costumi dei religiosi prese corpo in numerosi scritti polemici quattrocenteschi.

Un aspetto che, al contrario, consente di saggiare la possibilità di un accostamento tra i due autori è, sul versante filosofico, il rapporto con la dottrina epicurea e con il delicato tema del libero arbitrio. M., beninteso, non è certo inquadrabile in modo ortodosso in alcuna scuola filosofica: il suo empirismo, la sua curiosità e il suo pragmatismo lo tenevano lontano dalla ‘faziosità’ culturale e anche dalla costruzione di un sistema di pensiero organico. Tuttavia, il suo spirito sostanzialmente ateo e la sua laica disinvoltura gli consentirono certamente di apprezzare molti aspetti della ‘filosofia del giardino’. Di Lucrezio (→), peraltro, M. aveva trascritto personalmente una copia. L’idea che le divinità si disinteressassero alle vicende umane; l’utilitas come causa principale (e non necessariamente riprovevole, a differenza di quanto aveva scritto Cicerone) dell’agire umano; la possibilità che l’uomo fosse dotato di libertà di azione e dunque della capacità di incidere, almeno in parte, sugli accadimenti esterni: tutto ciò era stato teorizzato dalla filosofia di Epicuro e a M. non sarà certo dispiaciuto. In che misura la conoscenza di V., che a sua volta intervenne su queste tematiche, può aver influenzato il Segretario fiorentino?

V., si sa, non fu né un ateo né un epicureo di stretta osservanza. Il suo fu sostanzialmente il tentativo di coniugare alcuni aspetti fondamentali della dottrina di Epicuro con il cristianesimo. Che tutto ciò non gli abbia risparmiato la censura ecclesiastica, è un dato che riguarda la storia della cultura in età moderna: delle più precoci critiche da parte dell’ortodossia nei confronti di V. – accusato di aver rivolto le proprie ‘armi’ ideologiche contro la Chiesa e sottoposto, tra l’altro, a un processo inquisitoriale – M. potrà essere stato consapevole: certo non se ne sarà scandalizzato. Occorre però ancora una volta osservare che lo specialismo raffinato dell’umanista romano difficilmente poteva conciliarsi con la prensile agilità culturale del Segretario fiorentino. Non ci sono ragioni evidenti per attribuire anche in parte alla lettura di V. le argomentazioni epicuree di M., il quale, peraltro, evita di ‘schierarsi’ filosoficamente: se è vero che la matrice principale del suo pensiero non può essere equivocata, è anche vero che egli non si preoccupa mai di menzionare apertamente le proprie fonti filosofiche. Un riferimento, comunque piuttosto generico, al dibattito culturale preesistente si coglie nelle parole che M. riserva alla delicata questione del libero arbitrio. Si tratta di parole – collocate in apertura del cap. xxv del Principe – che ripetono l’identica approssimazione con cui egli stesso si riferiva, al principio del cap. xv, ai «molti» che avevano ragionato prima di lui sul principato. Così, nel cap. xxv, M. riflette sul ruolo della fortuna e riferisce, per l’appunto, il pensiero dei «molti» che si sono espressi in favore o contro la possibilità che l’uomo sia dotato di libero arbitrio. Il riferimento – oltre a essere, come si diceva, alquanto generico – sembra esprimere una polemica a largo raggio, rivolta al passato e anche al presente. In effetti il motivo del libero arbitrio era vivacemente sentito dalla cultura di primo Rinascimento ed era destinato a prendere corpo, nel giro di pochi anni, nella controversia – incentrata su questioni strettamente teologiche – tra Lutero ed Erasmo. Le pagine valliane del De libero arbitrio e anche del De vero falsoque bono, in cui si ragiona in merito alla capacità dell’uomo di scegliere i contenuti delle proprie azioni in relazione all’onestà e all’utile, erano con ogni verosimiglianza distanti dall’interesse più pratico e ‘militante’ di Machiavelli. «La strada indicata dal Valla non incrocia, né può mai incrociare quella di Machiavelli» (Sasso 1997, p. 227).

Bibliografia: La falsa donazione di Costantino, a cura di G. Pepe, Milano 1952, Firenze 1992; Scritti filosofici e religiosi, introduzione, trad. e note di G. Radetti, Firenze 1953, nuova ed. con premessa di C. Bianca, Roma 2009; Opera omnia, premessa di E. Garin, 2 voll., Torino 1962 (rist. anast. dell’ed. Basilea 1540; il De libero arbitrio si trova nel 1° vol. alle pp. 999-1010); De vero falsoque bono, critical ed. by M. De Panizza Lorch, Bari 1970; Gesta Ferdinandi regis Aragonum, edidit O. Besomi, Padova 1973; Antidotum in Facium, edidit M. Regoliosi, Padova 1981; Dialogue sur le libre-arbitre, éd. critique par J. Chomarat, Paris 1983; Epistole, ediderunt O. Besomi et M. Regoliosi, Padova 1984; De professione religiosorum, edidit M. Cortesi, Padova 1986; Über den freien Willen, hrsg. E. Kessler, München 1987; La donation de Constantin (sur la donation de Constantin, à lui faussement attribuée et mensongère), trad. et commenté par J.-B. Giard, préface de C. Ginzburg, Paris 1993; De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio, recensuit et apparatu critico instruxit W. Schwahn, Stuttgart-Leipzig 1994; La falsa donazione di Costantino, a cura di O. Pugliese, Milano 1994; On the donation of Constantine, transl. by G.W. Bowersock, Cambridge (Mass.)-London 2007.
Per gli studi critici si vedano: F. Gaeta, Lorenzo Valla. Filologia e storia nell’Umanesimo italiano, Napoli 1955; G. Di Napoli, Lorenzo Valla. Filosofia e religione nell’Umanesimo italiano, Roma 1971; S.I. Camporeale, Lorenzo Valla. Umanesimo e teologia, presentazione di E. Garin, Firenze 1972; P. Giannantonio, Lorenzo Valla filologo e storiografo dell’Umanesimo, Napoli 1972; G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla donazione di Costantino, con testi inediti dei secoli XV-XVII, Roma 1985; Lorenzo Valla e l’Umanesimo italiano, Atti del Convegno internazionale di studi umanistici, Parma 18-19 ott. 1984, a cura di O. Besomi, M. Regoliosi, Padova 1986 (in partic. M. Regoliosi, Le congetture a Livio del Valla: metodo e problemi, pp. 51-71; G. Ferraù, La concezione storiografica del Valla: i “Gesta Ferdinandi regis Aragonum”, pp. 265-310); F. Tateo, Valla Lorenzo, in Enciclopedia Virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana, 5° vol., Roma 1990, ad vocem; M. Regoliosi, Nel cantiere del Valla. Elaborazione e montaggio delle Elegantie, Roma 1993; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997, pp. 221-28; G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna 2004; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005; S. Pagliaroli, L’Erodoto del Valla, Messina 2006; G. Ferraù, Valla e gli Aragonesi, in Valla e Napoli. Il dibattito filologico in età umanistica, Atti del Convegno internazionale, Ravello 22-23 sett. 2005, a cura di M. Santoro, Pisa-Roma 2007, pp. 3-29; Lorenzo Valla e l’Umanesimo toscano: Traversari, Bruni, Marsuppini, Atti del Convegno del Comitato nazionale per il VI centenario della nascita di Lorenzo Valla, Prato 30 nov. 2007, a cura di M. Regoliosi, Firenze 2010; R. Ruggiero, Machiavelli e i penalisti, «Intersezioni», 2013, 1, pp. 5-24.
Diodoro
Non comprerò quel libro.
Sono decenni che si tenta di sostituire la damnatio memoriae antica ("Abbiamo visto di tutto ai posti di potere, ma uno come Nerone no") con una valorizzazione da parte dei Saggi di oggi.
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Il monumento funebre sulla via Cassia non è la Tomba di Nerone Il contenuto importante è quello relativo alla mongolfiera lanciata da Parigi per l'incoronazione di …Altro
Non comprerò quel libro.
Sono decenni che si tenta di sostituire la damnatio memoriae antica ("Abbiamo visto di tutto ai posti di potere, ma uno come Nerone no") con una valorizzazione da parte dei Saggi di oggi.
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Il monumento funebre sulla via Cassia non è la Tomba di Nerone Il contenuto importante è quello relativo alla mongolfiera lanciata da Parigi per l'incoronazione di Napoleone (seconda parte dell'articolo).
Perciò: agli occhi di Dio, Nerone e Napoleone erano simili. Entrambi sparsero sangue per la propria affermazione. Entrambi tentarono di eradicare la Chiesa (il 29 Giugno del 67, sotto Nerone, è la data consolidata del Martirio dei Santi Pietro e Paolo.
Napoleone si pose come Protettore della Chiesa in senso mafioso: "Se sarete la Mia Chiesa, la sezione "Affari Religiosi" del Mio Impero, e il Papa il Mio Cappellano, tutto andrà bene. Se no... avete già visto ciò che so fare" )
Giovanna Delbueno
A. Barbero quando ne ha l'occasione si produce in calunnie anti cattoliche, carino, sarcastico, ride sempre, racconta tanti aneddoti e tutti pendono dalle sue labbra tanto la storia ........chi l'ha studiata? Lui sì, e la usa molto bene, ma come molti altri colleghi non dice tutta e sempre la verità, quella scomoda lui la rimuove, la sminuisce, la travisa. Non mi piace affatto.
Diodoro
Torino -la Torino che conta, dai tempi di Cavour a oggi- è così, gentile signora. Già nell'Ottocento, mentre esplodeva il dominio della Massoneria con i suoi aspetti esoterici, satanici, sanguinari, liberal/comunistici, guerrafondai, libertini ecc., vi fu il Gentlemen's agreement (Patto fra Gentiluomini... figuriamoci che gentiluomini!) fra parecchi Massoni e parecchi Preti: "Non siamo nemici …Altro
Torino -la Torino che conta, dai tempi di Cavour a oggi- è così, gentile signora. Già nell'Ottocento, mentre esplodeva il dominio della Massoneria con i suoi aspetti esoterici, satanici, sanguinari, liberal/comunistici, guerrafondai, libertini ecc., vi fu il Gentlemen's agreement (Patto fra Gentiluomini... figuriamoci che gentiluomini!) fra parecchi Massoni e parecchi Preti: "Non siamo nemici per davvero, siete d'accordo? Siamo persone rifinite, educate, ci rispettiamo fra di noi, cooperiamo in modo soft. Tutti ci riconosciamo nella Mole".
Non si è più usciti da quella situazione.
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Io conobbi, dopo il Duemila, un anziano Sacerdote torinese veramente Cattolico, veramente Italiano, a mio giudizio santo.
Non era un Gentiluomo. Era un Parroco di campagna. Era un uomo
Francesco Federico
@Diodoro
Torino è anche la città della Sindone, di don Bosco del beato Cottolengo ed è anche la città dei Savoia. Casa Savoia dinastia che possiede il più alto numero di rappresentanti della santità fra tutte le case regnanti d’Europa. Fatima si inserisce a pieno titolo in un disegno soprannaturale che lega la terra del Portogallo agli avvertimenti e ammonimenti della Madonna, nonché a Casa …Altro
@Diodoro
Torino è anche la città della Sindone, di don Bosco del beato Cottolengo ed è anche la città dei Savoia. Casa Savoia dinastia che possiede il più alto numero di rappresentanti della santità fra tutte le case regnanti d’Europa. Fatima si inserisce a pieno titolo in un disegno soprannaturale che lega la terra del Portogallo agli avvertimenti e ammonimenti della Madonna, nonché a Casa Savoia, dinastia che possiede il più alto numero di rappresentanti della santità fra tutte le case regnanti d’Europa. Gli straordinari accadimenti di Fatima partono da molto lontano e non si sono ancora sigillati.Benedetto XVI ha definito degli illusi coloro che credono che le profezie di Fatima si siano chiuse con la volontà di Giovanni Paolo II di rendere pubblico il testo della terza parte del Segreto. Dichiarò, proprio a Fatima, davanti a 50 mila fedeli raccolti nella piazza della vecchia basilica il 13 maggio 2010: «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa. […] Nella Sacra Scrittura appare frequentemente che Dio sia alla ricerca di giusti per salvare la città degli uomini e lo stesso fa qui, in Fatima, quando la Madonna domanda: “Volete offrirvi a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Egli vorrà mandarvi, in atto di riparazione per i peccati con cui Egli è offeso, e di supplica per la conversione dei peccatori? […] Possano questi sette anni che ci separano dal centenario delle Apparizioni affrettare il preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità».La Madonna si presenta agli uomini da duemila anni. La Tradizione della Chiesa ricorda che già nel primo secolo ad Efeso, nell’Asia minore, la Vergine apparve agli apostoli. La funzione annunciatrice, mediatrice, chiarificatrice di Maria, Madre di Dio e corredentrice con Gesù, fa da scorta alla storia dell’umanità e ciò è da contemplare come servizio della Verità. Maria Vergine si presentò cento anni fa in una terra cattolica tenacemente fedele a Cristo e alla Chiesa, ma particolarmente provata: nel passato a causa dell’invasione islamica e nel 1917 a causa della Massoneria anticristiana e anticlericale. A riguardo di quelle antiche prove esiste molto da dire e molto da ricordare.

Nel XII secolo i lusitani, ovvero i portoghesi, avevano vinto i Mori che miravano alla conquista della penisola iberica. Alfonso I (1109-1185), detto il Conquistatore (Conte del Portogallo dal 1128 al 1139 e poi primo Re del Portogallo dal 1139 fino alla morte), affidò al suo eroico condottiero, Don Gonçalo, il compito di difendere il Paese dal pericolo islamico. Prima della decisiva battaglia di Ourique (26 luglio 1139), Alfonso stava pregando per la protezione del popolo portoghese, quando gli apparve una visione di Gesù Cristo sulla croce. La guerra fu vinta e in segno di gratitudine, il Re incorporò le cinque ferite di Cristo nella bandiera, inserendo cinque pallini bianchi all’interno dei cinque scudi azzurri, che rappresentano i cinque sovrani moreschi sconfitti proprio ad Ourique: piaghe e scudi sono tuttora presenti sul drappo portoghese. Quale premio per la vittoria ottenuta il Re concesse al fedele Gonçalo il privilegio di scegliersi in sposa la giovane più bella fra le musulmane prigioniere e quest’ultimo elesse Fatima, nome assai noto fra gli islamici, perché appartenuto alla figlia di Maometto. Ma a Fatima venne imposta una condizione, che la giovane accolse benignamente: la conversione alla religione cattolica. Maestra e catechista fu la moglie di Alfonso I, Mafalda di Savoia, prima Regina del Portogallo.

L’unione fra il condottiero, conosciuto come Matamoros, e la bella Fatima durò poco: la sposa morì prematuramente e Gonçalo decise di ritirarsi a vita di preghiera e di penitenza nell’abbazia cistercense di Alcobaça, tra i figli di San Bernardo, abbazia fondata e donata a San Bernard de Clairvaux (1090-1153) dallo stesso Alfonso I. Don Gonçalo, al fine di avere un più vivo ricordo dell’amata sposa, ne fece trasferire la salma in una località vicina e che da lei prese il nome: Fatima.

Il 19 agosto 1999 è stata ritrovata, fra le antiche carte dell’archivio del monastero delle Domenicane di Alba (Cuneo), fondato dalla Beata Margherita di Savoia, una straordinaria documentazione di cui si erano perse le tracce. Questi scritti rivelano che nel XV secolo Casa Savoia venne informata delle future apparizioni di Fatima e degli annunci mariani circa i castighi che si sarebbero abbattuti sull’umanità. Era il 16 ottobre 1454 quando, in questo monastero di Santa Maria Maddalena, una certa suor Filippina de’ Storgi (?-1454), prima di spirare, lasciò una profezia: la Madonna sarebbe apparsa a Fatima. Suor Filippina era la figlia di Filippo II di Savoia-Acaia (1340-1368), vittima di una congiura familiare che lo condusse ad essere legato e gettato ancora vivo nelle invernali e gelide acque del lago di Avigliana (Torino). Tuttavia, avendo chiesto l’intercessione del Beato Umberto di Savoia (1136-1189), si salvò miracolosamente. Fu così che decise di fuggire e di vivere da pellegrino penitente e orante per essere perdonato dei propri peccati, prendendo il nome di Frate Guglielmo. Raggiunse i santuari della Francia, della Svizzera, della Spagna, del Portogallo… e giunse fino a Fatima, dove era stata edificata una chiesa per volere di Mafalda di Savoia, figlia di Amedeo III di Savoia (1087-1148), detto il Crociato, poiché aveva partecipato, richiamato alle armi da Papa Callisto II, alle guerre in Terrasanta.

Filippo di Savoia-Acaia entrò nella modesta chiesetta di Fatima e scorse, davanti all’altare, sul nudo pavimento, una pietra tombale con una scritta latina che recitava: «Qui giace Mafalda ovvero Matilde figlia di Amedeo III Conte di Savoia e sorella di Umberto III Conte di Savoia, consorte di Alfonso Eriquez I Re del Portogallo insieme alla sua figlia spirituale Oureana già chiamata Fatima. Questa chiesa e l’attiguo convento li fece erigere quella Regina per onorare la Gran Madre di Dio nell’anno 1154». Fatima e Mafalda erano, dunque, state sepolte insieme. La Regina, morta a Coimbra il 4 novembre del 1157, lasciò scritto nel suo testamento che aver «portato Oureana alla fede cristiana è stata la mia grande gioia. Lascio a lei il compito di continuare il culto della Vergine nella chiesetta che feci costruire alla Sierra de Aire che tanto somiglia alla mia Savoia e dove desidero essere sepellita io stessa per riposare nella quiete eterna ai piedi della Vergine Maria, lontano dall’eco della città». Gli auspici di Mafalda di Savoia si realizzarono e la chiesetta del Borgo di Fatima divenne centro universale di spiritualità mariana.

In punto di morte la veggente Suor Filippina de’ Storgi «parlava de’ futuri eventi, prosperi e funesti della Casata Sabauda, fino a un tempo non preciso di terribili guerre, dell’hesilio di Umberto di Savoia in Lusitania, di un certo mostro d’Horiente, tribulatione dell’Humanità, ma che sarebbe ucciso dalla Madonna del S. Rosario de Phatima, se tutti li huomini l’havessero invocata con penitentia grande» (In C. Siccardi, Fatima e la passione della Chiesa, Sugarco, Milano 2012, p. 53). Inoltre il 16 settembre 1454 la mistica sabauda rivelò che «là nella Lusitania c’è una chiesa in un paese che si chiama Fatima, edificata da una antenata della nostra Santa Fondatrice Margherita di Savoia, Mafalda, regina del P.Gallo e figlia di Amedeo tertio di Savoia, e che una statua della Vergine SS.ma ha detto degli avvenimenti futuri molto gravi perché Satanasso farà una guerra terribile ma perderà perché la Vergine SS.ma Madre di Dio e del SS.mo Rosario di Fatima “più forte di ogni esercito schierato a battaglia” lo vincerà per sempre» (Ibidem).

Questa cronaca storica offre un’idea dell’immensità del progetto che la Divina Provvidenza ha riservato a Fatima, un progetto che ebbe inizio con la fondazione del Regno del Portogallo e si è poi sviluppato attraverso i secoli, coinvolgendo anime prescelte: dai primi sovrani della nazione lusitana, che liberarono la loro terra dalla presenza dei violenti seguaci di Maometto, ai tre pastorelli di Fatima, portavoci delle esortazioni e dei richiami della Madonna, che, nella comunione dei Santi, li lega alla monaca Suor Filippina, morta in odore di santità.

Il Portogallo, dunque, è terra di elezione e proprio qui, disse Maria Vergine nel 1917, si conserverà il dogma della Fede, sottintendendo che altrove non sarà così, come oggi si constata drammaticamente, e in quest’opera di demolizione del Cattolicesimo contribuisce attivamente la stessa Chiesa di Roma: è l’apostasia, di cui da diverso tempo gli studiosi parlano a riguardo del terzo segreto di Fatima. Chi rimarrà fedele alla Verità, chi ad essa si convertirà, chi pregherà per la redenzione dei peccatori parteciperà al trionfo del materno Immacolato Cuore di Maria, che nella benedetta terra di Fatima pulsa, con le cinque piaghe di Cristo Re, da quasi mille anni.

Cristina Siccardi
Fonte: Radici Cristiane, maggio 2017