“Woke” Disney, o dell’ipocrisia di svezzare il pupo con la brigata arcobaleno

La casa madre di Topolino ha deciso che metà dei suoi personaggi dovrà essere Lgbtq, e al bando chi non crede che i bambini vadano trattati (in tutti i sensi) come adulti. Cioè la maggioranza degli americani

Dopo aver collezionato una serie di trovate woke (l’ultima? L’eliminazione dei sette nani per non offendere i nani) da fare invidia al bando dei maschi bianchi a Hollywood, dopo aver giocato agli abortisti in Georgia e celebrato i canonici Pride, la Disney sfodera l’artiglieria pesante: celebrare l’ossessione degli adulti per la sessualità dei bambini e dare in pasto ai piccoli l’identità di genere. Lo avrete letto tutti, sotto titoli festosi quali “La svolta arcobaleno”: Karey Burke, presidente della Disney’s General Entertainment Content ma soprattutto «madre di due bambini queer, un bambino transgender e un bambino pansessuale», ha annunciato che entro la fine dell’anno almeno il 50 per cento dei personaggi Disney apparterrà a minoranze etniche o alla comunità Lgbtq, avrà cioè caratteristiche etniche e gusti sessuali espliciti. E lo ha fatto annunciando la nuova campagna “Reimagine Tomorrow” «alla luce della legge recentemente approvata in Florida Don’t Say Gay». Questo è quello che trovate sui giornali.

Ma la legge “Don’t Say Gay” piace

Quello che non trovate – e che ha invece ben segnalato Rod Dreher -, è quanto ha appena certificato un sondaggio della Public Opinion Strategies, cioè che dopo aver letto cosa dice veramente il testo della legge della Florida “Parental Rights in Education” (ribattezzata con disprezzo da liberal e media “Don’t Say Gay”), due terzi degli elettori americani di ogni orientamento politico o sessuale sono assolutamente favorevoli. Proprio come il governatore Ron DeSantis, infatti, due intervistati su tre ritengono del tutto inappropriato che insegnanti o educatori si lancino in discussioni all’asilo o con bambini fino alla terza elementare sull’identità di genere (la legge bandisce lezioni a tema e sull’orientamento sessuale fino al terzo anno di scuola primaria e consente ai genitori di citare in giudizio i distretti scolastici che decidessero di trattare argomenti non «adeguati all’età e allo sviluppo» dei loro bambini). Di più, solo l’8 per cento desidera che venga rimosso il genere dai certificati di nascita e oltre la metà ritiene che gli atleti transgeder debbano continuare a competere nelle gare del sesso assegnato loro alla nascita.
Insomma, la maggior parte degli americani ritiene che fino agli 8 anni i bambini debbano entrare a scuola e all’asilo, non in un’aula di catechismo gender, tantomeno che insegnanti ed educatori debbano rappresentare per bambini molto piccoli dei surrogati attivisti di mamma e papà col compito di svezzarli sulle questioni di genere.

La brigata transgender Disney-Biden

C’è poi la brigata Biden, il presidente gasato dalla “visibilità” che secondo lui salva sempre capra e cavoli: «I transgender condividono le loro storie su libri e riviste come mai prima d’ora», ha dichiarato, orgoglioso che sotto il suo mandato americani “non binari” e “non conformi al genere” stiano giocando un ruolo da protagonisti in tv, cinema, nella politica, nella comunità. «La nostra amministrazione vi vede per quello che siete: fatti a immagine di Dio e meritevoli di dignità, rispetto e sostegno», «sappiate questo: siete così coraggiosi. Siete dei nostri. E noi vi guardiamo le spalle».
E allora perché dare alla maggioranza degli americani, quindi anche agli elettori di Biden, dei trogloditi, omofobi, inabili al ruolo genitoriale, esautorandoli fin dall’asilo ed equipaggiando i loro figli di caramelle a base di lezioni, pronomi neutri (banditi tutti i pronomi di genere, ora nei parchi non ci si rivolge a signori, signore, bambini o bambine, si saluta con “ciao a tutti”, “ciao amici” e si usa un generico “sognatori”), cartoni con baci gay (è stato annunciato il bacio lesbo nell’atteso prequel di Toy Story targato Pixar Lightyear – La vera storia di Buzz)?

Trattare bimbi come adulti (anche con gli ormoni)

«Avevate bisogno che io fossi un alleato più forte nella lotta per la parità dei diritti e vi ho deluso. Mi dispiace»: è l’imbarazzato mea culpa di Bob Chapek. Due settimane fa il ceo della Disney si è cosparso il capo di cenere arcobaleno. Ha deciso di pagare il suo iniziale non voler prendere posizione sulla legge della Florida con la promessa ai suoi agguerritissimi dipendenti (che avevano fomentato una campagna di pressione mediatica, coinvolgendo attori e sceneggiatori, contro la casa madre che in Florida gode di incentivi e sgravi fiscali) tour di ascolto, una task force per promuovere le istanze Lgbt, e garantendo che d’ora in poi si sarebbe opposto ad ogni legge “discriminatoria”.
Come quella del Texas, che vieta la somministrazione dei bloccanti della pubertà considerando «abusi su minori» i tentativi di riassegnare il genere con la chirurgia a bimbi e adolescenti. Una terapia sperimentale e pericolosa, come ampiamente documentato in Svezia, Regno Unito ma anche negli Stati Uniti, dove gli stessi luminari della medicina transgender stanno denunciando i rischi e danni della somministrazione di ormoni ai ragazzi («non possono essere assolutamente trattati come adulti»), ma alla Disney che importa?

Don’t Say Uiguri

Trattare i bambini come adulti è la loro specialità della casa, si tratti di ficcare il naso su cosa succede nelle scuole dello stato o nello studio di un endocrinologo. Specie quando il transwashing serve a regolare un po’ di conti interni scaricando sul ceo il torto delle donazioni alle campagne elettorali per i politici promotori del disegno di legge in Florida che subito avevano scatenato la rivolta dei dipendenti: lettere aperte, denunce, scioperi, perfino la pronipote di Walt Disney si era scagliata contro il pavido Chapek e una norma che non era “in linea” con la visione del mondo in cui «la fantasia, l’amore, la gentilezza, il rispetto e la lealtà sono valori incrollabili».
E forse anche l’ipocrisia: come dare torto a DeSantis quando ricorda che la pucciosa Disney che si scaglia contro la legge “Non dire Gay” della Florida si guarda bene dal dire una parolina contro lo sterminio cinese degli uiguri? «Un “ringraziamento speciale” al Publicity Department of CPC Xinjiang Uyghur Autonomous Region Committee», recitano i titoli di coda del live-action Mulan, proseguendo con i ringraziamenti agli enti governativi dello Xinjiang dove sono state girate alcune riprese. Gli stessi enti e stessa regione, per capirci, dove è in atto la persecuzione criminale e sistematica della minoranza musulmana; dove il partito comunista ha rinchiuso in “campi di rieducazione attraverso il lavoro” almeno un milione di persone e obbligato centinaia di migliaia di donne a contraccezione forzata a base di iniezioni e inserzioni di spirali, di interventi chirurgici di sterilizzazione e persino di aborti contro la loro volontà. Alla faccia dei valori incrollabili.

La Disney inclusiva stigmatizza i non allineati

Nemmeno alla Disney sono tutti allineati con la “svolta arcobaleno”: in una lettera aperta (e non firmata per paura di ritorsioni), alcuni dipendenti denunciano il «clima invivibile» in azienda per chiunque non abbia idee «esplicitamente progressiste» ed è costretto ad «assistere in silenzio» mentre le loro convinzioni vengono «attaccate dal nostro datore di lavoro». Sono chiamati «bigotti», credono nella possibilità di unire nella magia e nell’intrattenimento persone di ogni classe, razza, ceto, politica senza armare una fazione contro l’altra e che per farlo l’azienda non dovrebbe promuovere una agenda politica che divida al posto di unire le persone. La lettera rivela che alla faccia dei proclami sull’impegno a creare un posto di lavoro superinclusivo e dove tutte le persone e opinioni trovano cittadinanza, la The Walt Disney Company «ha promosso il terrore che qualsiasi dipendente che non rispetta la linea venga denunciato e licenziato».
«Abbiamo visto i nostri colleghi, convinti che nessuno in azienda potesse non essere d’accordo con loro, diventare sempre più aggressivi nelle loro richieste. Insistono che la Disney prenda una posizione forte non solo su questa, ma anche su altre leggi e sostengono apertamente punizioni per i dipendenti che non sono d’accordo con loro», «Molto è stato fatto dei nostri sforzi interni per re-immaginare il domani, ma per quanto la diversità e l’inclusione siano promosse, il domani che viene reinventato non sembra avere spazio per chi ha idee politiche conservatrici o religiose all’interno dell’azienda». La Disney, conclude la lettera, «non dovrebbe essere un veicolo per l’attivismo politico di un gruppo demografico. È molto più grande e più importante di così. Oggi più che mai, il mondo ha bisogno di qualcosa intorno a cui unirsi».

“Woke Disney”

Il clima in azienda è facilmente intuibile. “Woke Disney”, l’ha ribattezzata Dreher. Non fosse chiaro, dopo aver diffuso l’intervento di Karey Burke, Christopher Rufo ha pubblicato il video di un dirigente della produzione. Nel video Allen March dichiara allegramente che il suo team è ora impegnato a «esplorare storie queer» e promuovere personaggi “trans”, “bisessuali” e “non conformi al genere”, afferma che i bambini «prendono tutte queste informazioni dai media» e «c’è un sacco di potere in questo». Il potere degli adulti che giocano alla guerra culturale arruolando i bambini.

Fonte: Tempi
Cecilia Guerini
L'unico modo per fermare questa oscenità è boicottare la Disney